SÅM – Esplorazione visiva della Lessinia.
Una possibile introduzione
DI STEVE BISSON
La residenza artistica SÅM si configura come una ghiotta occasione per esplorare, e quindi avvicinare, il denso microcosmo della Lessinia. Un territorio che raccoglie una ricca geografia di valori testimoniati con l’istituzione dell’omonimo Parco regionale all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso. Come curatore della prima edizione di questo programma sento la responsabilità di dare significatività al ciclo progettuale che si apre, orchestrandone la produzione artistica.
L’opera A Line Made by Walking di Richard Long, del 1967, è un caposaldo per gli sviluppi successivi della Land Art, e più in generale delle coscienza ambientalista. Durante uno dei suoi itinerari da autostoppista dalla casa di Bristol alla scuola St. Martin di Londra si ferma in un campo a Wiltshire. Qui comincia a camminare avanti e indietro, quasi una marcia insistente, finché l’erba schiacciata a terra inizia a riflettere la luce e a disegnare una via retta, una scultura lineare invisibile. L’episodio testimonia il ruolo potenziale della fotografia come atto di registrazione di azioni compiute, richiama la dialettica presenza e assenza cara a Walter Benjamin, e influenza le successive generazioni e pratiche di performative art. La progettualità nello spazio, è questa una lezione dell’artista britannico, deve essere il risultato di una graduale immersione nella terra, una scoperta reale di segni, colori, storie e messaggi. La pratica del camminare come un ingrediente necessario e sinonimo di un muoversi lento e curioso. Nel solco tracciato da Long si muove intenzionalmente Davide Galandini che riportando in superficie la presenza dei basalti colonnari in Lessinia, recupera idealmente un sentiero dismesso, una diversa consapevolezza ambientale, uno spazio cognitivo fatto anche delle parole e dei ricordi di generazioni che ancora facevano il bagno in fondo al Lago Tondo. La sua installazione all’aperto è un invito a non perdersi nell’indifferenza. Egli marca il suo territorio con la propria volontà ancora prima che con la pietra. Ana Blagojevic compie un percorso simile ma rivolto all’interno. Il suo viaggio “al centro della terra”, tra le cavità carsiche tipiche di queste parti, è un percorso teso e difficile nell’anima buia della montagna. Misurarsi con essa è misurarsi con i propri limiti, timori, speranze. Così facendo ci invita a conoscere quel territorio nascosto che vive dentro ogni individuo, così come in natura vi è sempre un lato oscuro.
Anche l’esperienza artistica di Joseph Beuys, nei primi anni Ottanta del secolo scorso, è un significativo manifesto sul rapporto con la natura. La produzione del tedesco non si riduce nella prospettiva ecologica, con il Fluxus, Beuys ha condiviso l’idea dell’arte come argomento e strumento di coscientizzazione. L’arte è ovunque ed è per tutti. L’amicizia con i coniugi Lucrezia De Domizio e Buby Durini, lo porta spesso in Italia, a Bolognano, dove realizza alcuni concetti che ancora investono la critica contemporanea. La difesa della natura, come scrive De Domizio, è un ricco percorso operativo e spirituale che impiega Beuys negli ultimi quindici anni della sua vita a difesa dell’uomo, dei valori umani, della creatività. La “battaglia” di Beuys in realtà non è mai cessata e trascende l’anagrafe. Come nel caso delle 7.000 querce simulate a Kassel. Un bosco immaginato che si fa beffa del mercato dell’arte, quale esempio per il futuro, seme per il cambiamento, e allerta sulle possibilità umane. Un andare oltre la vanità estetica, gli sterili sproloqui sul mezzo, il bricolage concettuale, il bisogno di autostima. Una qualsiasi residenza che voglia insistere in un territorio può muovere da assunti etici. Questa è l’eredità di Beuys. Faccio fatica a leggere un’esplorazione visiva sganciata da una consapevolezza ambientale. L’autoreferenzialità non è un crimine ma non serve più a nulla. Nicolò Lucchi orienta la propria analisi sugli elementi essenziali. Nell’acqua riconosce la forza e capacità di trasformare e trasformarsi, di generare il paesaggio geologico. Con il suo immaginario, con il suo desiderio di simulare i processi naturali al fine di de-contestualizzarli e renderli davvero visibili, egli restituisce la dimensione lenta del tempo che plasma inesauribile la terra incurante dei bisogni dei suoi abitanti. Un tempo appena percepibile e che sfugge allo sguardo impaziente dell’uomo.
Nella serie fotografica ‘Diaframma 11, 1/125, luce naturale’ (1970-1979) Luigi Ghirri ritrae delle persone alle spalle, nell’atto di osservare vuoi una mappa, un quadro o altro ancora. Questo crea una diversa profondità e pone l’accento sul ruolo del fotografo nella messa in scena. La verità è che a sua volta l’artista recita o è parte di un’altra scena, e il suo sguardo non sarà mai onnipotente. Perché in fondo egli filtra la realtà attraverso la sua personalità, ed ogni scatto lo tradisce, prima ancora di tutto il resto. Ciò solleva interrogativi sulla capacità ultima di restituire l’identità di un luogo e sull’eventualità che l’immagine possa replicare dei tratti essenziali. L’identità non esiste di per sé, è il risultato di una relazione sociale. Pertanto i rapporti umani vanno approfonditi, e ciò richiede tempo e pazienza. Qualità che la “fotografia”, sempre più figlia di un’ansia di prestazione, coltiva a fatica. Non resta che un’essenza, una fragranza. La Lessinia non è una mappa, ma un arcipelago di piccole comunità, ciascuna con le loro storie che risalgono indietro. Storie che un tempo raccontavano del vissuto, e talvolta di gesti e ritualità antiche. Tra i monti poi esse conservavano ancora un retrogusto pagano, poiché i popoli che vivevano di bosco ne rispettavano i segreti e le proprietà. Le storie venivano trasmesse per via orale e ciascuno ci metteva l’accento dove gli pareva. Grazie alle storie si praticava l’ascolto, il ritmo, la musica. Oggi invece le storie si fanno con poche immagini che ostruiscono i pori della vista, spesso, con la prepotenza dell’oggettività. Il senso dell’udito va sdoganato insomma. Chi ha orecchie intenda. Emanuele Brutti ha scelto di dare fiato alle leggende e favole tipiche della tradizione orale dei monti Lessini. Le storie filò, quelle che ci si raccontava d’inverno in stalla perché lì faceva più caldo, quelle che non si sa bene da dove arrivano perché erano storie flessibili che col tempo si mescolavano alle credenze, ai costumi, ai fatti “paesani”. Parole che ancora oggi alimentano nuove costruzioni anche artistiche.
Si è detto, infine, della fede nelle immagini. Il lavoro di Joan Fontcuberta mette in discussione questa sorta di assioma portante nella storia della fotografia. Non è il solo sia chiaro, anzi, i progressi della tecnologia e della manipolazione digitale hanno svezzato da tempo i credenti più radicali. Il surrealismo ha vinto. Se un tempo la fotografia poteva smascherare la realtà oggi accade molto più probabilmente il contrario. Ebbene, si diceva del fotografo catalano, nel suo libro ‘The Photography of Nature / The Nature of Photography’ fin dal titolo gioca con il tema della fotografia quale mezzo di rappresentazione e mette a nudo l’ambiguità della finzione. Quest’ultima è ormai di più di un tentativo velato, è quasi una rassegnazione alla contraddizione. Per Hegel, l’opposizione è la molla della realtà. Per distinguere tra bene e male dobbiamo metterli in relazione l’uno con l’altro. Quindi, possiamo dire che l’arte come quella di Fontcuberta contribuisce alla dialettica tra realtà e finzione nella ricerca di produrre una sintesi. La realtà è ricca di contraddizioni, checché se ne dica. Eraclito cita l’esempio dell’acqua di mare che bevuta può essere impura per l’uomo e pura ai pesci. Fotograficamente parlando, quindi, non c’è una verità assoluta da rivendicare, e nemmeno da affogare nella logica dei contrari. Piuttosto si possono esplorare obiettivamente le assunzioni di veridicità di leggende, tradizioni e specificità. Così Chiara Bandino, evocando una vicenda locale di falsificazione archeologica, gioca a mettere in scena un ritrovamento attraverso frammenti storici, manufatti, immagini d’archivio e appunti visivi, e spinge chi guarda ad interrogarsi sulla natura delle selci, a cogliere la sottile distinzione tra oggetti fuori dal tempo e artefatti fuori posto, a riflettere sulla comune fascinazione per i reperti del lontano passato.
Il paesaggio, anche quello della Lessinia, è soprattutto memoria, e la memoria è associata spesso alle immagini nella forma del ricordo. Più che altro, è vedendo che riconosciamo un qualcosa. E quale è il valore di questa memoria? Questo ci porta a considerare l’autenticità dello sguardo che si misura anche nella capacità di distinguere ciò che è significativo da ciò che non lo è. In molti territori vi sono aspetti che passano inosservati, che sono dimenticati dalla collettività o che si esprimono silenziosi. Compito dell’esploratore è quello di scoprirli, di interpretarli e riportarli in luce se necessario. Con sincerità e meno arroganza. Paola Fiorini ci riesce aprendosi a quello ‘spazio vissuto’, caro al geografo Armand Frémont, che sviluppa dall’incontro con alcuni custodi di antichi mestieri e saperi. Volti, mani, segni che definiscono e palesano una realtà intima e, assieme, la necessità di una memoria attiva. Francesco Biasi invece muove dal recupero di ricordi fissati in vecchie fotografie di famiglia. Tracce di momenti di svago tra i monti. Lessinia spensierata e lontana dalla città. Egli ne ritaglia le figure secondarie, le comparse, per riportarle tutte in primo piano. Con esse i significati del conservare la fotografia. E forse un bisogno di riconoscere e di “sentirsi nelle immagini”, negli altri.
La residenza SÅM si apre con una prima collezione di opere che testimonia tutto il potenziale della Lessinia nel campo delle arti visive e plastiche. Agli organizzatori il merito di sostenere questa sana e diversa contaminazione. Agli amministratori il dovere di facilitare il progresso di tali pratiche. Alla comunità il piacere della partecipazione purché attenta. Questa iniziativa, come qualsiasi pianta, ha bisogno della giusta illuminazione per crescere.